Selenya: l'Ombra di Tlicalhua - Capitolo 12 - Guardie e Prigionieri

in #ita4 years ago

Le mani di Batina erano calde e i suoi sussurri nell’oscurità ovattata le trasmettevano tranquillità. Non parlava da tempo con un’altra donna, qualcuno che potesse capire come ci si poteva sentire schiava in un mondo di uomini. Sola e ferita.

"Credo che dovremmo spostarci da qua se vogliamo parlare ancora." le disse.

Aveva già sentito quelle parole… in un lontano passato.
Ricordava mani calde nella notte e sussurri preoccupati.


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"Nahua, dobbiamo spostarci da qua se vogliamo parlare ancora" le disse Mara, sbarrando gli occhi spaventata. "Le guardie… ci potrebbero scoprire!"

Erano in un vicolo buio della Fossa, dopo essersi calate dalla finestra del palazzo verso la libertà. Almeno così speravano: avevano fatto rumore, qualcuno si era accorto della loro fuga, qualcuno aveva slegato i cani.

"Ci prenderanno, Mara" disse una giovanissima Nahua quasi in lacrime. "Torniamo indietro. Chiediamo perdono."

"No. Non tornerò indietro. Non farò più quella vita, mai più… piuttosto la morte."

In quel momento una sagoma nera si stagliò sullo sfondo cremisi della Luna di Sangue. "SONO QUI! Le schiave fuggitive sono qui!"

"Andiamo Nahua!" le disse Mara, prendendole la mano e cercando di tirarla su; ma Nahua era paralizzata. La sua mano molle e senza forza, il suo sguardo spento. "NAHUA!" le urlò l’amica, ma lei non rispose. I passi delle guardie ed i latrati dei cani si facevano sempre più vicini.

Mara mollò la presa e fuggì via, dall’altro lato del vicolo. Mentre correva, si voltò per un attimo verso di lei con uno sguardo preoccupato: un attimo di disattenzione che le impedì di vedere la sagoma dietro l’angolo che le si gettò addosso.

Le zanne del cane si chiusero sull’esile collo della schiava.

Bastò un attimo: un movimento brusco della mascella, lo zampillio dell’aorta recisa, lo schiocco sordo di una vertebra spezzata e Mara smise di muoversi... per sempre.


Nahua ritrasse le mani da quelle di Batina; quell’orribile schiocco ancora nelle orecchie. Cercò di dissimulare l’orrore allontanandosi in un angolo buio dove non poteva essere vista. L’ennesimo flashback, l’ennesima prova che stava lentamente recuperando la memoria.

Si guardò le mani... sentiva ancora il suo calore e sue parole di incoraggiamento.

"Grazie…" sussurrò rivolta all’oscurità.

Il giorno dopo, decisero che la loro prossima meta sarebbe stata la Città Imperiale: il fulcro di tutti i commerci e gli intrighi politici di Selenya, un punto di incontro tra tutti i regni ed un gioiello di architettura di cui Nahua aveva sentito parlare solo nei libri e nelle dicerie dei mercanti.

Si prepararono per il viaggio caricando i cavalli di provviste: il villaggio delle pianure poteva sembrare insulso con le sue case basse di paglia e malta, con le sue strade polverose e le sue sparute coltivazioni di grano e piante di fico d’india.

Eppure Ametl aveva raccontato che, da qualche parte in città prendeva posto il quartier generale dell’antica Gilda degli Assassini di Tlicalhua: un luogo dove i migliori sicari, spie ed esploratori di tutti i regni venivano addestrati e inviati sul campo, sotto cospicuo pagamento. Nahua si guardava attorno circospetta, chiedendosi chi appartenesse alla gilda tra tutti quelli che fissavano il gruppo di avventurieri con curiosità e diffidenza.

Probabilmente Tepe stava parlando con uno di loro: il possente guerriero era ufficialmente andato a comprare del cibo, ma a Nahua non sfuggì il losco scambio che avvenne durante la contrattazione. Un foglietto di carta accuratamente piegato passò dalle mani di Tepe a quelle del mercante, insieme a un paio di dragoni d’oro.

La ragazza cercò di memorizzare accuratamente il volto dell’uomo: le avrebbe potuto far comodo in futuro.

Il viaggio verso nord proseguì senza particolari intoppi per tre giorni: la strada che collegava il villaggio di Xihuitl alla Capitale Imperiale era battuto e ben pattugliato dall’esercito del Dragone. Gli unici rallentamenti erano causati dalle frequenti domande dei soldati a Tepe riguardo Gano e Batina.

"Sono nostri prigionieri" ripeteva ogni volta Tepe nella lingua di Tlicalhua, mostrando poi i documenti che attestavano la loro missione.

La ragazza si chiedeva se i due ospiti di Porpuraria fossero consci di essere stati ufficialmente catturati e arrestati. In effetti, la formula usata da Tepe per metterli sotto “La sua protezione” era la stessa che si usava durante la tratta degli schiavi e nelle operazioni di recupero dei criminali o fuggitivi in attesa di giudizio. Tutti loro lo sapevano: per questo Xoku si mordeva il labbro ogni volta che incontravano una ronda, lanciando sguardi preoccupati verso i due “ospiti”.

La vera domanda che la assillava era un’altra: quello di Tepe era un espediente per procedere più velocemente durante il viaggio o aveva davvero intenzione di riportare Gano e Batina in catene a La Fossa una volta terminato il loro compito?

E ancora: come avrebbe dovuto comportarsi LEI se fosse stata vera la seconda opzione?

Il flusso di pensieri si interruppe quando il gruppo arrivò in vista del “Passo del Cielo”.


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L’unica strada che collegava il regno di Tlicalhua alla città imperiale era una fenditura tra le montagne; un sentiero roccioso che faceva da confine geografico e politico tra le montagne del nord e quelle del sud, tra il clan di Tepetl Mictlampa e quello di Tepetl Ytzicotla. L’avevano chiamato il Passo del Cielo perché, a guardarlo dalla valle, sembrava che si inerpicasse lentamente verso l’alto fino a congiungersi con la volta celeste.

Uno spettacolo meraviglioso, rovinato purtroppo dalla carovana di schiavisti che stava scendendo giù dal passo. Una decina di uomini a cavallo che frustavano nove donne e dodici uomini legati tra loro in fila indiana, feriti e denutriti, diretti verso sud.

Vedendo la scena Batina si bloccò sbarrando gli occhi. "Dobbiamo fare qualcosa, non possiamo permettere che li trattino così..."

Gano la prese per mano tirandola: "Batina, non siamo a casa nostra, qui la schiavitù è bene accetta. Se vogliamo viaggiare sicuri dobbiamo far credere che siamo prigionieri."

Poi sussurrando verso la compagnia "Anche a me non piace, ma adesso abbiamo una missione da compiere. E credi che questi uomini che ora ci accompagnano si schiereranno con noi? O forse ci deruberanno delle nostre scoperte per poi venderci a quegli schiavisti che vuoi combattere?"

Nahua osservò la loro discussione sempre più dubbiosa su quello che sarebbe stato del loro futuro.

Dopo altri due giorni di viaggio, il gruppo arrivò finalmente alle porte della città imperiale, sotto il caldo sole di mezzogiorno.

Altissime mura cingevano la città in un abbraccio colossale: persino il portone di accesso era enorme, abbastanza largo da far passare tre carri affiancati e alto quanto quattro cavalli uno sopra l’altro.

Gli avventurieri smontarono da cavallo e si avvicinarono alle guardie.

"Dobbiamo far visita all’ambasciata di Tlicalhua" disse Tepe con fare sbrigativo facendo un cenno agli uomini armati.

"Ehi ehi, calma i bollenti spiriti carboncino" disse una delle due. "Qui non si va da nessuna parte senza aver mostrato i documenti".

"Non ho nessun documento da mostrare agli occhi della guardia imperiale" rispose Tepe tra i denti. "Ora scusatemi ma ho molta fretta."

"Forse non sono stato chiaro…" disse l’uomo, strattonando Tepe per la spalla.

Il guerriero del Vulcano prese la guardia per il polso pronto a torcerlo con l’evidente obiettivo di spezzargli il braccio. Fortunatamente per tutti, Ametl se ne accorse e, quasi con noncuranza, trattenne la mano di Tepe rivolgendosi alle guardie:

"Certo che abbiamo i documenti! Pensate, sono così ufficiali da avere stampato su entrambe le facce il volto del nostro sovrano."

Il predone fece tintinnare davanti al volto dell’uomo d’arme un sacchetto di monete.

La guardia lo prese soppesandolo, lo aprì e morse una delle monete. Poi si rivolse al gruppo: "Potevate dirlo subito, no? Tutto in regola. Muovetevi, ne ho abbastanza delle vostre facce abbronzate". E si voltò ridacchiando.

Si allontanarono di una ventina di metri prima che Tepe parlasse: "Vi ricordo che la nostra missione è segreta. Inoltre, le guardie imperiali non possono impedire alla guardia di Tlicalhua l’ingresso al nostro quartiere. Non era necessario pagarli."

Ametl sorrise. "Si chiama quieto vivere ragazzo. Le situazioni non si risolvono solo con i muscoli… e alla fine, forse, ci abbiamo anche guadagnato" e indicò con un cenno Nahua.

La ragazza non pensava di essere stata beccata; scosse le spalle e tirò fuori dalla tunica un borsello pieno di monete d’oro con lo stemma della città imperiale.

"Immagino che nessuna guardia si aspetti di essere derubata mentre conta i soldi di una mazzetta" sussurrò la giovane ladra.

Xoku la guardò sbarrando gli occhi: "Nahua! Rubare è un reato punibile con la morte!"

"Forse a Tlicalhua, caro amico pasciuto" disse Ametl, prendendo una manciata di monete dal sacchetto di Nahua e mettendosele in tasca. "Ma non qui. Qui al massimo si tratta di razzia verso i forestieri. Stiamo arricchendo Tlicalhua sulle spalle degli altri regni. Dovrebbero darci una medaglia, altro che pena di morte!"

Oltre il portone la strada era piena zeppa di uomini e donne, di mercanti e diplomatici, di guardie e soldati, di straccioni e mendicanti. Nahua non aveva mai visto tanta gente tutta insieme.

"Prima di andare in ambasciata, pensate di fare un salto qui?" Chiese Gano, indicando una pergamena affissa al muro sudicio di una locanda da quattro soldi.


ATTENZIONE:
Chiunque abbia informazioni sulla Luna Viola,
sulle sue cause o delle motivazioni per cui gli
dei non rispondono più agli appelli dei fedeli,
la Guardia Imperiale vi invita a mostrare le vostre
prove ai sacerdoti dell’apposito banco nella piazza
del mercato. L’impero pagherà cinquecento monete d’oro
per ogni informazione utile!


Ametl schioccò la lingua: "Adoro questo posto".

Selenya: Le sei Ombre della Luna


Le Sei ombre della Luna - immagine di @armandosodano

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molto particolari queste montagne...mi sembra tufo

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