LA SILLOGE - Capitolo Secondo

in Olio di Balena4 years ago (edited)

Capitolo Secondo
Nella mente il ricordo di simboli, lettere di una scrittura arcaica, frasi di inchiostro nero, no marrone scuro, su ambra dorato.
Dove? Sui fogli del pesce!
Ma dove le aveva già viste?
Aveva ripreso, così, in mano quei fogli di ambra colorati dal tempo ed attentamente aveva ricopiato le righe in calce alle pagine, uniche frasi non tradotte, e si era accorto fin da subito che, man mano venivano riportate sulla moleskine, prendevano forma di parole scritte in greco antico.
La sua formazione classica gli era d’ausilio nella trascrizione e, successivamente, s’era reso conto che la traduzione, però, era alquanto ostica, ché in ogni frase una parola risultava monca dell’ultima lettera, ed, ancor di più, dopo interminabili ore fatte di innumerevoli tentativi, che la composizione delle lettere mancanti aveva generato parole e, fors'anche, frasi di senso compiuto!
Tra i primi termini che era riuscito con difficoltà a comporre, tre avevano solleticato con immediatezza la sua curiosità: κόγχη: conchiglia; il secondo: νήσου: isola; il terzo: ηλεκτρον: ambra.
Le scritte in inchiostro testa di moro sulla conchiglia d’ambra dorato!
Quella scrittura, il greco, era simile ai segni visti sulla conchiglia che aveva trovato ed, quindi, il disegno, subito apparso artefatto, era la chiave del codice od, almeno, l’indicazione del posto, del luogo dove cercare: Κωνσταντινούπολις: Costantinopoli: Istanbul.
A quel punto s’era reso conto che, chissà per quale infinità fortuna, il fato gli aveva concesso due occasioni, in due momenti diversi, in due posti differenti: la conchiglia trovata di primo mattino sulla rena dell’isola: i fogli presi con il salmone acquistato al mercato del pesce alla mezza.
Sì, …ma due occasioni per farne cosa, poi?
A quel punto aveva rialzato il capo immerso tra i fogli ed i pensieri, aveva somatizzato la consapevolezza della presumibile scoperta ed appoggiato le stanche spalle allo schienale imbottito, e tirato un profondo sospiro, aveva acceso una Davidoff, tirandone una profonda boccata.
Si era fiondato sulla pila degli appunti, impolverata dai ricordi, proprio quella pila dei vecchi ritagli di giornale, delle lettere ormai già ricevute e lette, alla ricerca di quel libercolo, con i fogli bianchi ed orlati di bordeaux, quel blocco di memorie, quell'agenda di numeri celati dal tempo e fra i quali avrebbe dovuto esser custodito anche il suo, sperando che durante la notte degli anni trascorsi, non l’avesse cambiato.
Lui era ancora incredulo, emozionato, e turbato da ciò che si era trovato a scoprire. Aveva avuto il bisogno di cercare conforto ed aiuto in qualcuno, perciò, rovistando nella sua vita vuota se non di semplici, eppur numerosi contatti, anche intimi, s’era accorto che l’unica àncora a cui attaccarsi era lei, Erica.
La sua amica di sempre, non aveva cambiato numero, ma, in realtà, aveva variato il paese, come gli spiegò Mela, la madre, ed era volata in Francia, a Parigi, però gli aveva fornito un recapito dove contattarla. Aveva, quindi, telefonato ed, emozionato dal suono della sua voce calda, dolce, eccitante, aveva raccontato la sua storia, come se l’ultimo loro contatto si fosse consumato soltanto poche ore prima.
Ora quel legame lontano trent'anni, non consumato, ma assaggiato, s’era intimamente riallacciato già da subito, durante le prime parole della prima telefonata, una delle tante che erano, poi, seguite ad intervalli sempre più corti.
Erica, che della crittoanalisi ne aveva fatto un lavoro, era apparsa, fin da subito, interessata, incuriosita, affascinata dal suo racconto e dalla sua teoria e gli aveva chiesto di ricevere una scansione dei fogli ritrovati, oltre ad alcune righe, quale sunto delle sue teorie e pensieri.
Aveva prontamente, appena chiuso la stupenda telefonata, scansionato i primi e messo per iscritto i secondi.
Aveva inviato la mail alla sua amica di sempre e fatto tutto ciò s’era accorto che, ormai, le ombre della notte s’erano allungate intorno a lui e gli consigliavano di pensare al suo sostentamento.
Era, però, stanco e svogliato per cimentarsi nel rituale della cucina ed, allora, aveva deciso di uscire e fare il breve tragitto sul viale di ghiaia, che fiancheggiava il boschetto di ulivi, per arrivare, attraversando la statale, al Tropical, un ristorante sulla spiaggia che, eccezionalmente ed amichevolmente e ‘sì familiarmente, gli permetteva di ordinare ed asportare cibo, ‘pur non fornendo lo stesso servizio ad altri.
Filippo, il proprietario, era un vero amico, ed era un piacere andare da lui a fare due chiacchiere, entrare in quel posto era come tornare a casa, in famiglia, quella famiglia che Tommaso non aveva ormai più da tanto, da troppo tempo!
L’atto aveva seguito il pensiero, era entrato, varcandone l’ingresso, nel ristorante, aveva superato il banco bar, destinato agli aperitivi ed ai caffè ed ai digestivi, e s’era diretto in cucina a salutare ed implorare la signora Semira, la madre di Filippo, per avere il suo piatto preferito, radicchio rosso alla torinese e carpaccio di salmone al burro.
Lei, dolce e amorevole, come soltanto una madre può essere, lo aveva rassicurato ed accontentato, spingendolo però a raggiungere l’amico al terrazzino sulla spiaggia.
E così aveva fatto, non senza, però, ordinare e portare due calici di Ca’ del Bosco ed un assaggio di crostini fumanti, preparati da mamma Semira, al profumo di polipi al guazzetto.
Filippo era intento e volontariamente distratto dall’i-phone nel tentativo conscio e ottuso di inviare e-mail d’ordine ai fornitori, ‘pur sapendo che la linea in quel luogo era estremamente debole e sarebbe stato molto più facile farlo entrando nel Tropical, il bellissimo ristorante sulla spiaggia, ed usare la linea fissa.
Era a conoscenza della ricerca di solitudine, matta e disperatissima, del suo affranto amico.
Filippo portava, gravemente sulle spalle e, soprattutto, nel cuore ed anche nell’animo, la qualità più pericolosa della sconfitta: la colpa!
Aveva vissuto tutto, fin dalla fanciullezza e poi nell’adolescenza, e poi ancora nella maturità, alla velocità della luce, aveva consumato tutto avidamente, quasi sbranato i brandelli della sua felicità, e se gli affari ed il successo lo avevano soddisfatto, la fame e la sete atavica d’amore non lo aveva né sfamato, né, tantomeno, dissetato!
Aveva vissuto, poi, i mesi, le settimane, consumato i giorni con Claudia, come un lupo esaurisce la vita della sua preda.
Ora, che lei non c’era, e non ci sarebbe stata mai più, il rimpianto, parte peggiore del ricordo, gli dilaniava le viscere.
Con lo sguardo di un visionario, aveva scorto già appena arrivato ciò che gli altri non avevano visto, i sogni di rivincita, che erano, più che altro, di rivalsa ubriacavano di sé stesso Filippo, che sebbene avesse sempre avuto una sensibilità finissima, era, d'altronde, infantile ed ingenuo.
Era rimasto estraneo alla realtà non riuscendo a maturare ed era stato sconfitto da forze coalizzate nello sporcare con falsità meschine le sue azioni, il suo animo, così, disperatamente romantico, non aveva saputo agire contro gli uomini, si era chiuso in sé.
Gli si era avvicinato, lo aveva salutato come erano soliti fare stringendosi l’avambraccio, e gli aveva offerto il flûte di quel superbo spumante secco aveva poggiato il piatto con i crostini sulla chaise longue di Le Corbusier, che segnava il posto riservato al suo amico e gli si era seduto accanto.
Lì, di fronte a quella luna così distante, e ‘pur grande, avvolti dalla luce scura del blu indaco, ma luccicante, del mare, sorseggiarono in silenzio quel magnifico spumante secco italiano e gustarono i crostini fumanti, ambedue pensando ai rigoli, poi torrenti, poi fiumi di rimpianti e poi dighe ed, infine, mari di opportunità non abbracciate, protette e nutrite quando avrebbe dovuto esser il momento, il tempo!
Lì, sotto quel cielo immenso, anche senza parole, ai due amici era bastato il primo sguardo per esaurire un dialogo lungo come un secolo e, mentre sorseggiavano dai calici, s’era fermato il tempo.
I due viandanti dei pensieri avevano intrapreso, ‘sì vicini ma paralleli, la stessa strada, ahimè quella sconveniente della rimembranza.
Il prosecco serviva a mandare giù i bocconi amari delle due vite vissute dissolutamente, ‘ché nessun sentimento di pienezza, di serenità, era tronfio dell’amore ricevuto bensì proprio la mancanza svuotava quelle due brocche ormai quasi vuote.
Il silenzio che li circondava veniva interrotto dalle poche autovetture che sfrecciavano sulla statale e li distoglieva, opportunamente, dai pensieri e, così, iniziarono un fitto dialogo, chiedendosi a vicenda come andasse la vita e se ci fossero novità.
Ben presto, però, esaurirono gli argomenti, perciò, si era alzato e salutato l’amico ed era tornato dalla signora Semira a prendere la sua cena, poi, come un automa aveva imboccato, dopo aver attraversato la strada, il vialetto che lo portava al suo ricovero.
Aveva salito quei cinque gradini verso il portone, aveva salutato il portiere di notte e preso l’ascensore per arrivare al terzo piano. Dopo aver aperto la porta, aveva posato la cena sul tavolo, dal Beosound 8, come sempre acceso, usciva una gradevole musica, di cui però non ricordava né il titolo ne l’artista.
Aveva stappato una bottiglia di Gavi di Gavi, versato il vino nel calice, aveva acceso la lampada che dava quella calda luce arancione e si era, così, preparato la tavola ed aveva assaggiato il carpaccio e il radicchio.
Un suono lo aveva distolto dal desinare, una mail era arrivata sul Samsung Galaxy.
Erica gli aveva già risposto!
Si era fiondato sul pc ed aveva aperto l’ e-mail della sua amica.
Erica gli aveva scritto: un giovane chierico Tomaso, sì era proprio quello il nome del prete, per motivi di studio a Costantinopoli, mentre comprava del pesce, (!), s’era accorto che i fogli con cui lo stavano incartando appartenevano ad un codice e lì acquistò in blocco: si trattava di una silloge bizantina con testi apologetici cristiani contro i giudei, contro i pagani, contro i mussulmani.
Erano tutti noti, tranne uno, quello che oggi è conosciuto come “A Diogneto”: una esortazione a farsi cristiani, scritta da un anonimo in forma di lettera ed indirizzata, appunto, ad un certo Diogneto, di cui nulla si sa.
L’opera, datata al II secolo, era sorprendentemente sopravvissuta fino ad allora ed era totalmente sconosciuta, non citata dagli autori, né tantomeno da quelli medioevali.
Per una serie rocambolesca di eventi il codice, dopo la Rivoluzione Francese, arriva alla biblioteca comunale di Strasburgo. Durante la guerra franco-prussiana del 1870 una bomba tedesca colpisce la biblioteca ed il testo brucia.
Per fortuna, però, il testo era già stato riscritto e tradotto.
Ora, erano rispuntati quei fogli che avrebbero dovuto esser stati distrutti ed, apparentemente, sembravano originali, Erica, comunque, per esser più certa voleva vederli e far fare delle analisi più approfondite.
Ed anche, scriveva che delle frasi, in calce ai manoscritti, non se ne era mai fatta menzione: potevano esser apocrife, piuttosto che pagine sfuggite alla scoperta dei tempi.
E, poi, la conchiglia… un’altra coincidenza illogica irragionevolmente paradossale.
Lo esortava a raggiungerla a Parigi, sia perché Lei non poteva abbandonare il suo lavoro, sia perché avrebbe avuto a disposizione gli strumenti adatti per compiere i dovuti esami sui fogli, e, poi, soprattutto voleva rivederlo dopo così tanto tempo.
Aveva risposto subito, di getto, avrebbe controllato quale fosse il primo volo per Parigi, e se ci fosse stato durante la notte, l’avrebbe preso!
Ma non era così!
Era tornato sull'account di posta ed, ahimè, aveva scritto un’altra mail ad Erica, una di quelle tanto sconvenienti, che soltanto lui sapeva sbagliare nel scriverle: “vorrei una lampada ed un tappeto ed un cielo ed uno spicchio di luna da prendere e metterti al fianco per rendere il mio mondo perfetto”.
Le aveva anche scritto, ripresosi dalla sua maledetta istintività ed interrompendo quello che sarebbe sembrato un comportamento terribilmente infantile, che sarebbe partito l’indomani e l’aveva invitata all'Alcazar, unico ristorante che conosceva in quella città, sulla Gauche.
Ora camminava per raggiungere l’Alacazar, senza distogliersi dai ricordi di quei fantastici, solitari pomeriggi trascorsi a l’Ile du Levant, quando la mano di Erica, liscia, calda, decisa, fermò il suo incedere distratto e lo riportò lì, al tempo reale, sulla gauche.
Si era ritrovato, ad un tratto, di fronte a lei, all'amica di sempre, alla custode compiacente dei suoi segreti, delle sue paure, dei suoi tabù, in quella magica sera di giugno, quando quegli spot di vita vissuta, come lampi di flash nella notte, destabilizzavano il normale corso degli eventi.
Arrivati all'ingresso lui aveva spinto con accuratezza la porta di vetro dalla maniglia in ottone a forma di “A” e di “Z” e, nel cederle il passo, aveva incrociato i suoi occhi verdi, profondi, limpidi, scorgendone serenità e felicità accompagnate a soddisfazione, ed aveva tratto un sospiro di sollievo ed apri ancor di più l’ingresso per far passare la bellissima femmina sua ospite.
Nel varcare, poi, la soglia della Mezzanine si era trovato, intento e distratto, a pensare che Erica si era sempre fidata di lui, fin dal liceo, e quando le aveva parlato dell’inaspettata occasione che gli era capitata, lei, grazie alla bravura nel suo campo, s’era subito prodigata per accelerare i tempi, ed era stata fin troppo sensibile alla fretta di quel ragazzo, tornato dal passato e ritrovato uomo che, persa l’ingenua ignavia del futuro, aveva acquisito il fascino del vissuto.
Dopo la laurea in lettere antiche, si era specializzata nella crittologia, lo studio della crittoanalisi ed aveva, anche, pubblicato un saggio sulla fallibilità del “cifrario Rijndael”, mettendo letteralmente in crisi i principi moderni della crittografia simmetrica.
Il breve tragitto fino al bancone non gli impedì, però, di pensare ancora a qualche settimana prima, quando proprio non sembrava vero che la sua vita fosse cambiata “per una di quelle inattese fortune che vengono inaspettatamente concesse a coloro i quali il destino è stanco di perseguitare”.
Era lì, al bancone della Mezzanine, ed in compagnia della femmina più bella del locale, Erica, alta come non dovrebbe esser una donna, ma perfetta ed elegante, lei aveva riposto il trench nero con il cappuccio, che incorniciava i boccoli biondi, quasi a farla sembrare una cortigiana di un tempo, di ritorno da un luogo sconveniente, e scoperte le spalle abbronzate, senz'altro larghe in un’altra donna, ma in lei erano adeguate a reggere il peso del seno perfetto ed abbondante, lei, conscia del suo sex appeal, aveva lasciato, poi, all'immaginazione, il resto del corpo fasciato dal tubino in seta nero stretto in vita, che sarebbe sembrata larga in una donna più piccola, ma in lei era deliziosamente sottile ed evidenziava i suoi stupendi fianchi.
Loro due avevano quel raro dono di stabilire subito l’intimità, era sempre stato così, anche al liceo, quando si erano fatti beffe di tutti simulando la più bella storia d’amore del quinquennio. Nessuna gelosia, ne screzi, ne giornate nervose, tutto come soltanto la celluloide sa dare.
Era un film, o quantomeno sembrava che fosse così, infatti, un film in cui i due protagonisti erano calati nei rispettivi personaggi, ‘sì tanto da farlo anche senza la telecamera degli estranei, senza sceneggiatura, ne regista, fin quando avevano risolto che non avrebbero più potuto uscirne se non avessero scritto, dopo i titoli di coda, su di una loro immagine di schiena, la parola fine.
La luce sulle tonalità dell’arancione e del rosso sangue, il silenzioso rumore del mare calmo, il discreto vociare di ragazze, felici dei primi complimenti, non potevano altro che accelerare l’incipiente fine del primo film della loro vita.
Lentamente come se sapessero realmente dove andare e cosa fare!
Adagio, camminando adagio, abbracciati, languidamente, manifestamente, sensualmente tanto vicini da sfregare i fianchi, tanto da mimare una trascinante danza erotica, i cui passi li portavano fino alla fine del lungomare e, poi, più in là, giù per i cento gradini di pietra verso il bagnasciuga e, quindi, a piedi scalzi nell'acqua, che arrivava loro fin al petto, fino alla spiaggetta della grotta.
Seduti, quasi immersi nella fredda luce del sole che si andava tuffando nell'orizzonte bagnato del mare, il loro primo, unico, infinito bacio, prologo di quella voglia nascosta, di quel desiderio recondito che li aveva accompagnati per tutti quegli anni ed ora, proprio perché tutto stava inesorabilmente sparendo, quell'ultima emozione, quel solo minuto, doveva esser consumato, affinché non lasciasse traccia in loro, ovvero imprimesse un ricordo indelebile che li accompagnasse durante le loro vite, destinate, ormai, a separarsi; quel bacio, quindi, li aveva denudati del ritegno del gioco e aveva permesso che le mani volassero incontrollate.
Quando si è sconvolti in così poco tempo, però, si perde ogni briciolo di ragione, quella ragione che, spesso, è un limite all'amore più profondo.
Quella volta, invece, la ragione, fece loro dimenticare che avrebbero dovuto considerare un’esperienza più approfondita dell’altro, ma è anche vero che il tempo non sempre aiuta, perché se la persona con cui stai non è la tua reale parte mancante, può passare anche un secolo, ma non riuscirà mai a colmare completamente il calice.
In quel pomeriggio primaverile tutto sembrava potesse succedere …e successe.
La voglia di aversi completamente, senza freno, senza pudore, senza intralci, li rese liberi, liberi dalle catene della quotidianità, liberi di fare ciò che avevano pensato nella solitudine.
Un piacere continuato senza orgasmo, ma volutamente, controllatamente, fermi a qualche attimo dall'usuale traguardo che s’impongono gli amanti, ed, in quel momento, erano ‘sì tali.
Dopo il prosecco accompagnato alle tartine al caviale e burro salato, dopo i saluti e le frasi di rito, il maitre li fece accomodare al tavolo. Abbandonato, così, l’imbarazzo iniziale non gli rimaneva che riprendere il racconto dell’antefatto, che avrebbe introdotto il motivo per cui l’aveva cercata.
Raccontò fin nei minimi particolari i giorni precedenti.
Avrebbe potuto anche evitare di confidarle alcuni momenti ma, come al solito, s’abbandonò alla sincerità più assoluta, conscio che aveva di fronte a sé più che una donna, un’amica ed una complice.
Cercava di ricordare quelle poche volte ch'erano sembrati, in fine, pochi attimi rubati e vissuti come spettatore del film della propria vita.

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