Fotografia e bulimia (di immagini)

in #ita5 years ago

“E quante foto ci dai?”

Quasi ogni incontro con una futura coppia di sposi interessati al servizio fotografico include una domanda del genere.
Una domanda innocua, apparentemente logica e dovuta, che nasconde al suo interno diverse insidie.

Non amo (non più!) lamentarmi, quindi non mi sto lagnando del mio ruolo e altre storie simili: le insidie di cui parlo sono per gli sposi, più in generale per i clienti in quanto esseri umani, nella loro percezione del racconto fotografico.

Faccio un’apparente digressione.
Qualche tempo fa (esattamente qui: https://steemit.com/ita/@menebach/l-occhio-filtrato-la-realta-attraverso-un-telefonino) raccontavo della mia esperienza e dell’idea che mi sono fatto riguardo l’uso che oggi facciamo delle fotocamere, comprese quelle integrate nei nostri dispositivi mobili.
Un uso e un cambio culturale che non condanno affatto, e che anzi mi sembra l’ennesimo inevitabile cambiamento nella cultura umana, ma in quella riflessione mancava un pezzo, che ho tenuto volutamente da parte – anche se l’avevo parzialmente ‘accarezzato’.

Parlo dell’ampissima produzione odierna di immagini, e della percezione che abbiamo della stessa.

Scattando tutti tantissimo, siamo abituati ad avere di ogni singolo evento o soggetto decine e decine di scatti. Odio quando qualcuno vuol farmi vedere qualcosa tramite foto dal proprio cellulare, perché so già che verrò sottoposto a una veloce carrellata di fotografie, tutte magari rappresentati minime variazioni del singolo istante – come fotogrammi di un video – ma nessuna su cui soffermarsi davvero (non parlo qui della qualità dello scatto, ma ‘solo’ del contenuto).

L’apparente paradosso è che mentre oggi – rispetto ad alcuni anni fa – stampiamo un numero incredibilmente minore di foto (che verranno quindi perdute irrimediabilmente), ne scattiamo un numero incredibilmente maggiore, con una cura e una forma genericamente meno curate.

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Torno dalla dovuta (apparente) digressione.

Questo stato di cose crea nelle persone – nel caso specifico, clienti di un fotografo, e ancora più specificatamente una coppia di futuri sposi – questa strana richiesta.
Anzi, più che una richiesta: un’aspettativa.
L’insidioso aspettarsi tante, sempre di più, troppe fotografie che raccontino il loro evento.

Perché parlo di insidia?
Perché il rischio è quello di non godersene davvero nessuna, ed anzi nella – bulimica – fretta di andare subito alla successiva, non chiedersi affatto se la foto che si è appena superficialmente guardata avesse colto un pezzo importante della storia di chi guarda in maniera intensa e, prendere il termine con le dovute pinze, immortale.

L’apparente paradosso è che mentre oggi – rispetto ad alcuni anni fa – stampiamo un numero incredibilmente minore di foto (che verranno quindi perdute irrimediabilmente), ne scattiamo un numero incredibilmente maggiore, con una cura e una forma genericamente meno curate.

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La domanda “quante foto ci dai?” è poi seguita sempre, al momento della consegna del servizio, da un vago senso di insoddisfazione, qualunque sia il numero degli scatti consegnati.
Non ho mai un numero di riferimento, né tengo foto ‘buone’ di un matrimonio negli hard disk, non avrebbe senso.
Posso dire per statistica che, per un matrimonio che si svolga nel modo consueto, non ho mai consegnato meno di 350 scatti. Spesso ne consegno tra i 400 e i 500. A volte anche più di 700.

In tutti i casi, non è mai cambiato nulla: l’insidia di una vaga insoddisfazione dovuta a chissà quale aspettativa sul numero delle foto la percepisco sempre.

L’ultima consegna mi ha chiarito in modo preciso queste idee, che avevo anche prima ma erano più un informe blob di sensazioni.

La sposa, seppur molto contenta di tutto: “Siccome tra noi è nato un rapporto di intesa, di sincerità, devo dirti però che mi spiace non avere altre foto di me che ballo con mio padre”.

Ho riflettuto molto su questa cosa.

Mi sono posto per prima la domanda: “Ho agito in maniera poco attenta? Sono stato poco professionale o semplicemente poco bravo?”.
Una volta andato a controllare le foto è stato il momento in cui mi si è formato in mente tutto quanto appena scritto.

La sposa aveva festeggiato il suo matrimonio in un’antica villa nobiliare di Palermo. La villa è molto bella, ma all’interno ha degli spazi piccoli, e i tavoli degli invitati vengono sistemati tra delle stanze più piccole, comunicanti.
La stanza in cui si trovano il tavolo degli sposi e quelli dei parenti più stretti, così come la band che suona quando presente, è un po’ più larga, ma non è ampia tanto da concedere ampie vie visive di fuga.
Per farla breve, quando vi sono dei balli questi sono fotograficamente ‘sporcati’ da teste di persone rimaste sedute, camerieri che passano e ‘impallano’ – davanti o dietro – i soggetti, piatti sporchi ben visibili, cartelli di uscite d’emergenza, condizionatori, e così via.

Ho scattato diverse foto, cercando un’inquadratura ideale per evitare tutti questi disturbi, e nei brevi istanti in cui i soggetti erano in un punto ottimale, ed io avevo trovato un buon angolo, il papà della sposa ha chiuso gli occhi, l’ha abbracciata più forte e ha serrato una mano sulla spalla della figlia, come a non volerla in fondo farla 'andare via'.

Tutto, insomma, ha creato una storia.
Una di quelle foto che, seppur all’interno di un piccolo lavoro privato su commissione, quando me la ritrovo davanti mi dico bravo e sono certo di consegnare a quella famiglia, a quelle persone, un racconto importante che si porteranno in un album per tutta la loro vita.

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Quella sposa – ma non perché lei in maniera specifica, parlo appunto di un’ansia comune – forse non l’ha nemmeno percepito.
Mi ha solo detto che le dispiaceva che non ci fossero altre foto di quell’azione.
Foto che sarebbero state inutili, ridondanti, avrebbero scimmiottato quell’istante lì raffigurato o l’avrebbero preceduto, e tante foto avrebbero fatto perdere di valore, di potenza, a quella che era la summa di tutto.
La mia abilità di fotografo, prima, e la mia ricerca di professionalità, dopo, avevano sintetizzato quel momento in quello scatto.

Quando ero giovane i miei maestri, quelli più bravi, mi dicevano che la cosa più difficile per un fotografo è preparare un portfolio.
Per prepararlo, bisogna liberarsi di un sacco di immagini inutili, disinnamorarsi – in senso anti egocentrico – dei propri scatti.
Un portfolio che abbia un senso ben fatto può essere composto da sei o otto fotografie.
Un album fotografico è ovviamente un portfolio.

Dopo qualche istante di silenzio, ho formulato quindi questi pensieri e, in maniera molto più sintetica, li ho espressi alla sposa, dicendole che comunque ovviamente avevo altri scatti e glieli avrei dati più che volentieri, anche se per me rappresentavano solo un inquinamento di quello.
Lei ha declinato, dicendo di aver capito il mio pensiero e di essere d’accordo.

Ho deciso quindi di non consegnare più tutte queste fotografie agli sposi. E’ inutile notare un atteggiamento e sperare che cambi da solo: un via a un cambiamento deve sempre partire da noi.
Non posso consegnare sei o otto foto, ma una raccolta delle 150/180 foto SIGNIFICATIVE credo sia sufficiente, per non far perdere a questi momenti intensi tutta la loro potenza.

Con buona pace dei bulimici da scatto compulsivo e degli accumulatori seriali di immagini (non fotografie: immagini) su supporti digitali destinati, un giorno, ad essere per sempre perduti.

(Tutte le foto sono dell’autore)

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bellissimo post e bellissime foto!!

Grazie!!!

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Ti capisco benissimo.. al giorno d’oggi col cellulare si ha più facilmente la possibilità di scattare fotografie, ma la cosa brutta è che non si da il valore a quel singolo momento importante (con una foto), bensì a fare tante foto x poi pubblicarle sui social network... io la penso come te... è meglio una sola fatta bene che 100 fatte tanto per fare...

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