Memorie di un detective in pensione

in Olio di Balena3 years ago

Questo racconto è stato scritto per partecipare a Theneverendingcontest n°109 S4-P2-I3 di @storychain sulla base delle indicazioni di @piumadoro.

Tema: Aliens
Ambientazione: Disnayland

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Pixabay


“Hanno assassinato Topolino! Hanno assassinato Topolino!”.

Le grida della folla scandalizzata dal brutale martirio di una delle celebrità di questo parco, con la magnitudine di una divinità per gli occhi dei bambini, si alzavano al cielo la prima volta giunsi sulla scena del misfatto. I volti delle persone erano impassibili, gli occhi serrati e le bocche capaci di emettere solo urla incessanti di dolore e di disgusto cercando di coprire il ricordo dell’orrore al quale hanno assistito fino a rimuoverlo dalla propria memoria. La brutalità dell’omicidio rimarrà per sempre incisa nelle loro menti, come la mal erba impossibile da eradicare.

Il corpo giaceva disteso prono, anche se al primo sguardo non ero riuscito a comprendere in che verso si trovasse il suo torso. Questa sensazione mi ha provocato un senso atroce di nausea, tanto da non riuscire a trattenere il vomito che ho lasciato lungo il tragitto per raggiungere il cestino più vicino. Nessuno mi ha visto fortunatamente, erano tutti attoniti e accecati da quel ricordo indelebile.

Il secondo particolare che mi sovvenne subito agli occhi furono le innumerevoli lacerazioni che percorrevano il corpo della vittima, troppo strette e ravvicinate per poter essere causate da un’arma da taglio né tanto profonde per poter essere causate da un attrezzo meccanico come una motosega. Il medico legale confermò la mia teoria: morso umano. Il cadavere è stato interamente dilaniato da esseri umani famelici, un efferato atto di cannibalismo ha causato la dipartita di Topolino.

Non è stato possibile identificare la vittima, le impronte digitali erano scomparse insieme alle dita e i denti erano stati strappati alla radice. Il calco dei morsi sulla salma non ha portato ad alcun risultato, erano riusciti a smembrarlo così bene da cancellare le loro stesse tracce. Nessuno conosceva l’uomo che indossava quella maschera, un forestiero senza nome e senza volto. Non avevo nessuna base da cui partire con la mia prima indagine da nuovo detective. E così mi dovetti rimboccare le maniche e trovare un appiglio sul quale iniziare a tessere la tela delle indagini.

La prima testimone era la moglie, Minnie. La ragazza che interpretava il ruolo era del posto, un abitante della città degli angeli. Aveva iniziato a lavorare a Disneyland da poco tempo. Alternava il ruolo di intrattenitrice a quello di studente di medicina, cercando di pagare la retta universitaria e alloggiando all’hotel annesso al parco divertimenti. Conosceva poco la vittima, non ricordava nemmeno il suo viso né l’accento che lo contraddiceva, anche se era abbastanza sicura che fosse esotico. Al momento del crimine si era recata a prendere dell’acqua per lui e il suo collega visto il caldo atroce di quel giorno.

Il secondo testimone era il fido cane, Pluto. Il ragazzino che rivestiva le sembianze del cane mi abbaiò di essersi da poco trasferito dal Texas e che non conosceva praticamente nessuno in città. Non aveva mai avuto una vera conversazione con la vittima, ma era abbastanza certo che avesse un accento indiano o pachistano, orientale ad ogni modo. Disse che non parlava praticamente con nessuno, ligio al lavoro e alle regole. Faceva la pausa pranzo in disparte, era talmente emarginato che non avrebbe mai potuto far arrabbiare nessuno a quel punto. Vista la modalità dell’omicidio, non mi era ancora chiaro quale potesse essere il reale movente del o degli assassini, forse una fame smisurata.

Gli altri testimoni erano gli amici di una vita, Pippo e Pluto. A discapito della finzione, nella realtà i due ragazzi non avevano mai realmente conosciuto la vittima. Sempre isolato, taciturno e di poca compagnia. Al momento del massacro erano insieme a Pluto al bar, a bere qualche birra e godersi la loro pausa in beata allegria. Neanche loro erano a conoscenza dell’identità del malcapitato né avevano un’idea del motivo della sua morte. Insieme a loro intervistai anche due o tre clienti del parco che si erano scattati qualche fotografia poco prima dell’omicidio, e poi gli innumerevoli testimoni che si sono accalcati subito dopo davanti al cadavere esanime della vittima.

Arrivai al laboratorio l’indomani. Speravo che qualcuno del personale avesse fatto una scoperta sensazionale sulla scena del crimine, ma nessuna nuova prova era stata rinvenuta né tantomeno un’impronta confrontabile. La meticolosità con cui era stata compiuta quella bellicosità mi sorprese, pareva il crimine perfetto. Tra le prove figuravano anche le fotografie dei testimoni che volevano un ricordo con Topolino della loro giornata di divertimenti.
Guardavo quelle foto, le osservavo con estrema attenzione ad ogni particolare, esaminavo minuziosamente qualsiasi cosa potesse esserci sfuggita, ogni azione sospetta delle persone che passavano sullo sfondo, un qualsiasi atteggiamento che potesse far pensare ad un impulso omicida. Niente.

L’unico particolare che non quadrava nelle fotografie era un’imperfezione delle stesse, probabilmente un riverbero della luce che causava un effetto bizzarro negli occhi dei colleghi della vittima. Tutti e quattro alle spalle di Topolino, radunati al bar sullo sfondo, avevano l’intera iride iniettata di rosso sangue. È un effetto normale nelle fotografie con flash, ma dovrebbe essere coinvolta solamente la pupilla, non l’intero organo visivo.

Questa teoria era talmente sconclusionata che non ebbi nemmeno il coraggio di esporla ai miei superiori, non senza ulteriori chiarimenti cosparsi di prove che potessero avvallarla. Tornai sulla scena del crimine il giorno successivo, intenzionato a far chiarezza sui miei dubbi, a trovare una risposta a domande assurde che mi riempivano il cervello non lasciandomi la possibilità di ragionare.

Interrogai i diretti interessati prima uno per volta, con domande generiche per capire il loro possibile coinvolgimento nell’omicidio. Mi risposero tutti con affermazioni vaghe, ma che presentavano la stessa formula. Al momento dell’atrocità erano tutti al bar, ma nessun testimone è stato in grado di confermarlo eccetto loro stessi, e davano le spalle alla postazione di Topolino quindi neanche loro sono stati in grado di vedere chi potesse essere il colpevole. Nonostante gli interrogatori inconcludenti e le prove circostanziali, se non assenti, il mio istinto guidava le mie intenzioni ed ero sicuro che gli autori del misfatto fossero loro.

Li radunai tutti insieme per un ultimo interrogatorio di gruppo per riuscire a catturare i loro gesti d’intesa e prenderli in contropiede con la mia teoria dubbia, ma possibile. Se anche solo qualcuno di loro, l’anello più debole avesse esitato, l’avrei pressato fino alla confessione. Era l’unica strategia che rimaneva da utilizzare, l’ultima freccia al mio arco.
Ci sedemmo in uno stabile in disuso, che contava solo le sedie sulle quali ci trovavamo e un tavolo tra me e loro. Nessuno nelle vicinanze che potesse disturbarci e una sola via di fuga. Iniziai l’interrogatorio, li tenni sulle spine per un’ora, forse due. Giunsi al culmine della mia intervista con la fatidica domanda che avrebbe avvallato la mia teoria o avrebbe demolito il mio castello di carte.

Si guardarono tra di loro e poi volsero lo sguardo fisso su di me. Inizialmente nessuno aprì bocca, poi all’unisono risposero di non essere colpevoli. Qualcosa in loro sembrava diverso, le voci che uscivano da loro sembrava non gli appartenessero, come fossero posseduti. Si alzarono di scatto, e vidi nei loro occhi la stessa colorazione rosso sangue delle fotografie. Sentivo il panico che iniziava ad impossessarsi di me, la mia strategia si era rivoltata contro di me. Ero in trappola.

Scagliai la sedia all’indietro e cercai di allontanarmi in fretta. Quegli individui non sembravano più umani, solo l’aspetto tradiva il mio istinto. Avvertivo quel sentimento di attacca o fuggi tipico delle situazioni di pericolo, così afferrai la pistola e la estrassi dalla fodera. Intimai i ragazzi di fermarsi, ma loro erano sempre più vicini e dalle loro fauci iniziava a colare una bava che tirava al verde, una densa acquolina che mi fece provare un enorme senso di disgusto. Ero sicuro che qualsiasi entità mi fosse davanti, non era umana o non lo era più da molto tempo ormai.

Sparai e saprai e sparai ancora. Svuotai l’intero caricatore sui loro corpi, su ogni organo vitale che mi venisse in mente. Continuai a premere il grilletto anche ad arma scarica da tanta adrenalina veniva pompata nelle mie vene. I corpi esanimi dei ragazzi giacevano ora ai miei piedi, e nella morte sembravano essere tornati umani. Notai un movimento provenire dall’addome di ciascuno di loro, qualcosa si stava facendo largo attraverso la carne e la pelle per emergere dalle loro carcasse. Sbucarono delle entità vermiformi, dei parassiti che avevano scarnificato la pancia dei ragazzi affacciandosi all’esterno. Impugnai la pistola che avevo appena ricaricato e iniziai a crivellare di colpi anche quegli esseri ignoti che mi sovvenne di chiamare alieni.

La prassi per questi casi è il silenzio. Fui intimato dai miei superiori a non causare panico immotivato tra le persone, nessuno avrebbe mai dovuto conoscere una delle tante storie che coinvolgono creature non identificate. Minacciarono di rinchiudermi in un manicomio se non fossi stato capace di tenere questo segreto per me.

Ogni cosa a noi sconosciuta rimane tale, il caso fu archiviato e non se ne parlò mai più. Scrivo queste memorie a rischio della mia incolumità affinché la verità non venga taciuta, gli alieni esistono e si trovano in mezzo a noi.

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