Capitolo primo
Le cuffie diffondevano, dolce, cadenzatamente sensuale, tristemente allegra, “Aganjù” di Bebel Gilberto, i suoi piedi erano immersi nella sabbia fresca della notte trascorsa, il viso sentiva la brezza del mattino e l’orizzonte, che sul mare delimitava lo sguardo, ma non il pensiero, era pitturato del fucsia pallido dell’alba, mischiato al tenue giallo del sole nascente, e si mostrava in un’ellissi concava che disegnava la rotondità del globo.
Quel paesino in riva al mar Adriatico, gli aveva sempre conferito la tranquillità, pescandola dai ricordi della fanciullezza, quel suo tempo in cui anche una vela lontana, faceva viaggiare la sua immaginazione e accendeva il suo moto sognante.
La vita era, in fin dei conti, una tempesta, e quante volte aveva potuto crogiolarsi al sole, od accorciare, facilitare, velocizzare l’abbrivio di una storia, quante volte era stato al riparo delle sferzate del destino, ed aveva sfidato la fortuna rimanendo incolume nel corpo, o meglio nell'anima, o peggio ancora nel cuore.
Quando il giorno prima, però, era passato e si reputava salvo, ché aveva scampato il pericolo, il giorno successivo veniva sbattuto sugli scogli e pagava con sangue, il suo sangue, la immodesta sicurezza dell’esser stato fortunato.
La memoria di tali avvii, di tutti quei processi creativi anomali della sua identità, era ben scolpita e nel corpo e nella mente, tanto da generare quella deforme, asimmetrica e mutevole coscienza di sé stesso.
Portava in sé ben visibili, quindi, le cicatrici di un montaggio più istintivo, che meditato, dell’incedere episodico della propria esistenza, tanto che aveva sempre l’impressione di trovarsi davanti (in mezzo) a tante vite, piuttosto che ad una soltanto.
Quella mattina proprio questi pensieri lo impegnavano ormai costantemente, e gli erano di compagnia, quando s’accorse che era ancora in tempo per andare al mercato del pesce.
Era risalito dalla spiaggia al lungomare, aveva attraversato la strada, dapprima la corsia che portava dal porto al paese, poi l’altra, che ne ribaltava il senso di marcia, ed era giunto, oltrepassando l’ingresso del mercato, al bancone del pesce.
Salutò Artemio, notando che nelle settimane, in cui non era stato in paese, quell'uomo si era lasciato andare, aveva la barba lunga, i capelli arruffati, il maglione a collo alto slabbrato, che spuntava dal camice non lindo come al solito, e, poi, gli mancava la forza di quella simpatica, coinvolgente, verve ironica che lo aveva, sempre, contraddistinto.
Ricordava, però, che qualche mese prima, durante l’inverno, gli aveva accennato a problemi che riguardavano la moglie Asmaa, così aveva intuito che lei voleva andar via e, probabilmente, la loro storia insieme era arrivata alla fine e quell'omaccione, alto e biondo, aveva somatizzato il dolore e la tristezza dell’allontanamento dopo vent'anni della loro convivenza.
Tutto intorno a lui sembrava trasandato, improvvisato, e quando, gli chiese il salmone, Artemio lo impacchetto con dei fogli di un libro, sembravano fogli di un libro, perché aveva finito la carta alimentare. Ma più che la mancanza della sua organizzazione lavorativa, lo aveva colpito la perdita di qualsiasi interesse nelle cose che stava facendo.
Aveva preso il pesce, pagandolo, e si erano salutati, ambedue, quasi svogliatamente.
Uscendo aveva riposto il pacchetto nella tasca della sahariana blu e si era avviato verso la pensione che lo ospitava, imboccato il viale non asfaltato, fiancheggiando il boschetto di ulivi, si era diretto verso i cinque gradini che portavano all'ingresso, si era fatto vedere da Francesca, la figlia dei proprietari, bella, trent'anni, capelli lunghi ed a boccoli castani, occhi scuri, profondi, alta un metro e settantaquattro, lo sapeva perché, per gioco, l’aveva misurata …92, 65, 90: le altre sue misure.
Francesca era vestita dei suoi jeans strappati e di una t-shirt nera con dei ricami argentei sul collo a “V” molto largo, che faceva intravedere una spallina del reggiseno nero di pizzo, gli aveva aperto il portone a vetri e lo aveva salutato, alzandosi e facendo quei due passi per oltrepassare il bancone della reception, l’aveva abbracciato mettendogli le braccia intorno al collo e gli aveva regalato un dolcissimo bacio, carico di desiderio, ovvero di ricordo per la notte precedente.
Lui le aveva cinto i fianchi, risposto al bacio e, come tutte le volte, spinto le labbra fino all'incavo tra la guancia, l’orecchio ed il collo.
Era salito nella sua garçonnière: due stanze, bagno e terrazzino con vista sul mare, un soggiorno con l’angolo cottura, e la camera da letto: libri sparsi ed accatastati a terra, sui davanzali delle finestre, sui mobili, più di 1000 CD, anche loro senza fissa dimora, qualcuno anche fuori dalla propria custodia, vestiti sparsi sul letto e sull’upper di Kartell, il PC sempre acceso ed il Beosound 8 sempre in funzione da cui proveniva il suono della fantastica tromba di Jon Hassell, “Nature Boy”.
Aveva poggiato il pesce sul tavolo, si era sfilato la sahariana ed allargato il leggero foulard blu di Armani, il suo sguardo era stato attirato da alcune frasi del foglio con cui era stato incartato il salmone: “Sono disprezzati, eppure nel disprezzo sono glorificati; sono calunniati, eppure nella calunnia sono giustificati; Insultati, ma benedicono; offesi, rendono onore. Fanno il bene, e sono castigati come malfattori; castigati, si rallegrano come se ricevessero la vita. Dai Giudei sono combattuti come stranieri, e dai Greci sono perseguitati; e quanti li odiano non sanno dire la ragione della loro ostilità…”.
Chissà dove, Artemio aveva trovato quel foglio.
Aveva liberato dal pesce quel manoscritto e continuato a leggere quelle frasi che gli sembravano ridondanti, frasi che avevano un ritmo, una cadenza, una precisa disposizione delle parole: “Vengono scelti, si sacrificano; puniti, eppure prendono la punizione come il loro premio; nascosti, rimangono celati…”, così aveva impiegato quasi più di un’ora per leggere i due fogli che aveva dinanzi a se e poi s’era ricordato che avrebbe dovuto cucinare il pesce appena comprato.
Quindi aveva liberato il piano della cucina, e lavato bene il salmone, gettato sul piano della farina bianca e triturato del prezzemolo, poi aveva infarinato il pesce passandolo nel mix di farina e prezzemolo, ed aveva provveduto ad eliminare l’eccesso rimastone attaccato.
Aveva unto una pirofila di olio e infornato il tutto. Nel frattempo aveva disposto sulla tavola un runner grigio, un tovagliolo color glicine, un bicchiere a calice alto, le posate, e preso dal frigo una bottiglia di gewurztraminer ghiacciato e stappandola se ne era versato un po’ nel bicchiere.
A quel punto, si era accomodato sulla sedia, accavallato le gambe e, sorseggiando il vino, aspettava che il forno formasse sul salmone quella crosticina che avrebbe significato il completamento della cottura. Dal Beosound, intanto languida e ritmata, ma illustrata dal fraseggio suadente di quella tromba, fluiva la musica e le parole…
“…cosa non farò per farmi amare, cosa non farò per dirti che, cosa non farò per questo amore, per dirti cosa sei per me. Dormo ancora solo in questa stanza, dove al buio i sogni vanno via…”, sorseggiava quel fantastico vino fruttato e svogliatamente portava alla bocca degli anacardi, quando, quasi a riportarlo in se, era tuonato il segnale del microonde, e così, anche per quella volta, poteva sfamare il corpo!
Il mare al di là della porta finestra e più in su oltre la finestra era chiaro e l’orizzonte aveva perso colore fino a chiudersi sul limite dell’acqua con una sottile striscia bianca.
Più giù, invece, c’era il caldo della arena, dei lettini prostrati sotto corpi arsi e distesi, sui marciapiedi infuocati, dell’andirivieni di donne e uomini e bambini, che dalla spiaggia risalivano alle ville, alle case, al ristorante, tra la strada e la spiaggia.
Il chiosco dei giornali stava chiudendo.
Stava transitando, quindi, davanti a sé l'ultim'ora in cui avrebbe avuto gente intorno, tutto pian piano si andava svuotando, e tutti lentamente, stancamente, ordinariamente seguivano le procedure del vivere insieme, preparandosi per il pranzo, sbrigando le ultime faccende domestiche e rientrando nel rassicurante spazio delle proprie dimore.
Lui soltanto esitava ancora.
Sorseggiava calici di quel fresco vino bianco ed ascoltando quella musica dolce, intrisa di passione, ma destinata a chi aveva già amato. Lentamente, inesorabilmente, quasi sconvenientemente, il caldo, il peso del risveglio troppo mattiniero ed anche l’effetto del vino presero il sopravvento su di lui e si immerse, accasciatosi sul divano, in un torpore rinfrancante.
Un sonno cupo, profondo, poi, s’era impossessato di lui, come accadeva quando la sua mente cercava un rifugio, stanca ormai di soffrire delle pene non commesse, ma di cui stava pagando il fio; nei momenti che lo precedevano era solito immaginare un futuro migliore, nella speranza che quei sogni ad occhi semichiusi potessero soddisfare il pressante desiderio di serenità.
Giacque lì per ore, mentre il sole allo Zenith aveva incominciato il tuffo verso le colline ed abbassato la forza dei suoi raggi velandosi d’una coltre di foschia che, ‘pur non preannunciando alcun temporale, sottolineava l’umido ed incipiente arrivo della sera estiva.
Era ancora immerso nell'incoscienza del dormiveglia quando il telefono aveva preso a trillare, la porta a tuonare, e ricominciava appena a percepire i suoni del Beosound, ora più gravi, ritmati, decisi ma suadenti, che, svogliato, stanco e spezzato in due, si era alzato dallo scomodo giaciglio del divano, si era trascinato verso la porta di accesso al bilocale, rispondendo contemporaneamente al telefono, ma in un attimo gli era apparso chiaro che una delle due azioni era inutile: Francesca era sull'uscio con il telefono in mano, evidentemente aveva bussato a lungo alla porta, dopo aver lasciato il posto alla sua sostituta, ed era lì pronta per esser abbracciata, decisa di esser baciata, ed in attesa di esser invitata a cena e, magari, desiderosa di esser convinta a rimanere per la notte lì, con lui.
E… così fu!
Soltanto nell'assenza di un vero legame, risiede, d'altronde, l’impossibilità per un uomo di rifiutare la compagnia di una bella donna.
Lei non era soltanto bella, ma desiderabile, coinvolgente, spregiudicata ed, ad un tempo sorella, madre ed amante. La aveva fatta entrare, lei si era stretta nel suo abbraccio caldo, dolce, protettivo, cercando le sue labbra morbide.
Lui aveva preso e stappato un’altra bottiglia ghiacciata, del Pinot Grigio, aveva selezionato altra musica, scegliendo il ritmo etnico e magico dei Mystic Diversions, “Song from the love dance”. Lei, invece, aveva acceso dodici candele, avendo cura di raggrupparle a gruppi di tre ed aveva abbassato le luci, lasciando soltanto la lampada che sfocava l’ambiente nelle tonalità tenui dell’ arancione.
Avevano ballato stretti e dolcemente avvinghiati e cenato sul letto dalle mani, mangiando pesce crudo e bevendo calici e calici di quel nettare ghiacciato.
La notte era stata lunga, vissuta, ma quando aveva avvertito la sua stupenda presenza, al risveglio dalla narcosi del sonno, aveva incontrato i suoi occhi vicini, profondi e lucidi, e quando si era girato a guardare, al di là della finestra, le luci di ritorno in mezzo al mare, aveva avvertito il dolore della musica e le aveva chiesto perdono.
Più tardi, la luce del giorno li scoprì impreparati alle loro vite diverse, separate e ‘sì tanto parallele da potersi incontrare unicamente, ma necessariamente, all'infinito della successiva notte da vivere insieme; inesorabilmente la mattina ed i raggi bianchi avevano, sconvenientemente, rivelato ciò che era stato custodito e nascosto nei ripostigli polverosi delle loro menti, avevano risvegliato le vanità delle immagini dei sogni diurni, ed indotto così gli amanti ad abbandonare il talamo, cercare altro che potesse appagare i desideri insoddisfatti della loro unione incompleta, ovunque... ma non lì!
I ricordi del giorno precedente affollarono, così in un attimo, il suo presente e, meccanicamente, tornò al ricordo di quei fogli che odoravano di pesce.
Cosa aveva intravisto oltre le righe di quei versi arcaici?
Cosa aveva percepito?

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Bravo e continua così
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